Un’agenzia di comunicazione, così come ogni altra impresa, vive delle persone che ci lavorano e la popolano. E tra queste, un posto di riguardo ovviamente lo occupano i fondatori. Ecco quindi che vi proponiamo la prima di una serie di interviste a Luca Pirone, fondatore di Question Mark e account director. Per scoprire insieme passato, presente e futuro della nostra agenzia e, soprattutto, apprendere qualche segreto per chiunque, come il nostro Luca, intende imbarcarsi in un’avventura simile.
Ciao Luca. Anzitutto, parlaci un po’ della tua formazione, sia quella accademica che quella professionale.
Mi sono laureato in economia e commercio, una laurea forse poco attinente al marketing in senso stretto, ma che nel corso dei cinque anni di studi presentava già esami di economia e gestione delle imprese e marketing basilari. La formazione sul campo è avvenuta invece secondo un percorso magari un po’ atipico. Per sostenermi agli studi, lavoravo saltuariamente come dj. Una passione, quella per la musica, che ho provato a trasformare in lavoro sin dai miei 14 anni. Io sono infatti una persona che ama creare relazioni e reti. Con il tempo, ho notato sempre più che il canale dell’intrattenimento non era più “solo” un business, ma un media vero e proprio. Gli eventi erano sempre più mezzi promozionali per diversi brand, soprattutto quelli legati al mondo della cosmetica e moda. Documentandomi prima e con ricerche poi, selezionai agenzie milanesi specializzate in questa tipologia di eventi.
Con il coraggio un po’ ingenuo di chi voleva raggiungere nuovi obiettivi, telefonai, presentandomi come un Dj disposto ad offrire il mio supporto per attività nel sud Italia: insomma, una figura di riferimento per identificare i target, le location e le risorse necessarie. Così è nata questa mia “seconda attività”, come referente per agenzie che ormai non esistono più. Napoli è forse una città che in alcuni ambienti non offre poi molto, ma con tanta energia e una buona gestione dei contatti le mie attività aumentavano sempre più, riuscendo spesso a “incastrare” le promozioni in party già esistenti.
Come è nata l’idea di Question Mark?
Non sono mai stato uno studente modello, anche perché le mie diverse attività, da secondarie, diventavano sempre più importanti e occupavano tutto il mio tempo. L’evento non è solo una “serata”, ma vive di relazioni e preparazione. Inoltre notavo che molti miei amici, studenti eccellenti, facevano tutti lo stesso percorso: fine degli studi, corso d’inglese, corso di pc e poi tanta insoddisfazione fuori dall’università. Io sono una persona molto prudente, che ricerca soprattutto il benessere psicofisico. Prima di laurearmi, quindi, ho deciso di preparare il terreno per poter lavorare sin dal primo giorno dopo il termine degli studi. Con il tempo la mia piccola attività iniziò, da notturna, a essere sempre più “diurna”, cominciando a fare da referente per agenzie che gestivano attività per grandi marchi.
Cosa ha fatto scattare in te la “scintilla” che ha poi portato alla nascita di Question Mark?
Avevo un “complesso”: volevo diventare protagonista, non essere più un semplice aiutante di qualcuno. Al tempo credevo molto che il settore tessile campano potesse costituire un ottimo terreno di business. Ma ben presto mi resi conto che quel tessile non era più la “Cina del Nord Italia”, perché la Cina vera era ormai entrata e radicata prepotentemente nel mercato. Anche le aziende che stavano vivendo quel periodo se ne erano accorte, e molte di loro cercarono di costituire i propri brand.
Era un periodo di transizione, con molte aziende potenzialmente interessanti, ma forti solo nei “numeri”. Erano sì ricche economicamente, ma povere nella struttura. Da buon commerciale alle prime esperienze, mi scontravo con questi “esperti delle trattative” per tessuti e accessori, in un ambiente culturale certamente non alto ma che finiva per “mangiarmi vivo” o per ignorarmi. Quindi, la vera difficoltà è stata quella di capire come entrare in questo mercato della comunicazione, con quale prodotto. Il tessile non era adatto, nonostante inizialmente mi sembrasse idoneo. Forse era giusto così, quelle aziende non erano pronte: molte di loro, in realtà, sono morte senza nemmeno sbocciare.
C’è stato qualcuno che ti ha aiutato nell’uscire da questo periodo di transizione?
Ho fatto tutto da me. Avevo la fortuna di riuscire a mantenermi come agenzia in “subappalto”, perché le attività crescevano. Ma le aziende non mi ascoltavano. All’epoca le agenzie più famose lavoravano con altri prodotti: cataloghi e outdoor. Gli eventi erano inesistenti per le aziende del mio territorio, che sui limitavano a produrre materiale esclusivamente per creare strumenti per le loro reti commerciali, ma niente per i loro consumatori. Queste agenzie, importanti e anche preparate, sono quasi del tutto sparite insieme a quelle aziende, in quanto tutti un po’ miopi. Non vedevano il futuro della comunicazione
Il discorso è molto interessante e verrà certamente ripreso nelle prossime interviste. Parliamo invece del presente e del futuro. Di cosa ha bisogno, secondo te, un’agenzia che nasce per essere competitiva?
La prima cosa è la creatività, se parliamo di un’agenzia che vuole vendere idee. La creatività prescinde dall’esperienza. Senza idee, non c’è vera competitività. Poi, viene l’organizzazione. L’esperienza è sì un plus, ma non può essere davvero acquistato e, se la compri, perde un po’ del suo valore. Inoltre, l’esperienza è un boomerang, se vendi solo quella. Ti puoi sempre sbagliare. Anzi, devi sbagliare. Ma devi continuare e imparare, altrimenti è finita.